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Barbie | Alcune riflessioni colte (di sorpresa)

In questo articolo propongo alcune riflessioni alla luce (rosa) del film Barbie (2023) Greta Gerwig.

Dunque. Mi sono vestito di rosa e sono andato a vedere Barbie e il fatto di essermi vestito di rosa e di essere andato a vedere Barbie mi ha automaticamente proiettato in un gioco. Un gioco in cui mettevo in gioco la mia identità. Il modo in cui mi ero vestito annunciava alle persone intorno a me le azioni che stavo per compiere: ovvero accomodarmi in sala e assistere alla proiezione di Barbie. I miei vestiti, magicamente, non erano più solo i miei vestiti, ma erano parte di un discorso, una dichiarazione d’intenti, anche essi proiettavano significati. Grazie a questo gioco il mio corpo si era trasformato in un’affermazione. Il mio corpo, vestito di rosa, non solo deambulava, si sedeva, si nutriva, ma comunicava qualcosa.

Questa situazione mi ha riportato alla mente un bellissimo e rarissimo libro (è fuori commercio) che ho letto una decina di anni fa: “Il corpo dell’artista” di Amelia Jones. Si tratta un libro di grande formato, con delle preziose fotografie di alta qualità, che presenta una riflessione sull’arte contemporanea. La tesi dell’autrice è più o meno la seguente: nell’arte contemporanea uno dei protagonisti principali è il corpo degli e delle artiste che viene presentato come un elemento accentratore e condensatore di significati. Secondo l’autrice quando un corpo (quello dell’artista) incontra un altro corpo (quello dello spettatore) accade sempre qualcosa, ovvero una reazione. I corpi reagiscono incontrandosi e si relazionano sempre tra di loro. Di fronte al corpo dell’Altro siamo sempre obbligati a rispondere, a posizionarci. Il corpo dell’Altro ci fa sentire vicini, lontani, distanti, accoglienti, attratti, respinti, apprezzati, inadeguati, grassi, magri… Dove voglio andare a parare? Pensate al corpo di Barbie e come il suo corpo, porta sempre una reazione degli Altri (personaggi, e spettatori).

Il corpo di Barbie ci fa sentire inadeguati, ci mette ansia, innesca il desiderio, l’invidia, l’odio, l’amore. Infatti ogni volta che si apre un processo a Barbie è il suo corpo che sale sul banco degli imputati, accusato per il tipo di immagine e di stereotipo che suggerisce. Si tratta solo un giocattolo che rappresenta un corpo femminile, ma di fronte a questo oggetto, come suggerisce Amelia Jones, noi ci sentiamo obbligati a posizionarci. La corporeità di Barbie ci fa prendere posizione e ci fa capire chi siamo NOI in relazione con LEI.

La riflessione di Jones ricorda quella di Levinás dove l’Altro è sempre una domanda che mette in discussione il nostro io. È lo sguardo dell’Altro e la nostra reazione al suo sguardo che crea la natura del nostro io. Si capisce? Senza l’Altro non esiste l’io, l’io è semplicemente la reazione a uno sguardo che lo interroga. È un po’ come il principio di indeterminazione di Heisemberg che ci fa capire come noi non studiamo mai gli oggetti, ma solo la reazione che questi oggetti hanno con i soggetti che li stanno osservando. Il mondo non è fatto di “cose” ma di “reazioni”. Anche il nostro io e il nostro corpo sono il frutto di una serie di reazioni. E che cosa succede al nostro corpo e al nostro io quando viene colpito dall’oggetto Barbie?

Sta di fatto che per la prima volta, da un po’ di tempo, andare al cinema è stato per me tutta un’esperienza. Un’esperienza che mi è piaciuta e che ha smosso i miei ricordi.

Da piccolo giocavo con le Barbie, le spogliavo, le vestivo, le coloravo, le mutilavo e mi spingevo fino al gesto estremo: tagliare i loro capelli a caschetto. Ricordo che oltre alle Barbie nella cesta dei giocattoli c’era sempre un Ken, ma col Ken non si sapeva esattamente che fare. Allora lo si lasciava lì, in fondo alla cesta dei giocattoli ad aspettare che arrivasse il suo turno (ma il suo turno non arrivava mai) e per questo Ken mi sembra, con il senno di poi, una figura un po’ beckettiana, non trovate? Se avete visto il film, il continuo rimandare di Barbie, procrastinando all’infinito un momento di intimità notturna con Ken, ma preferendo sempre il pigiama party con le sue amiche, trasformava Ken in un Estragone vestito in modo sgargiante.

Andare a vedere Barbie mi ha smosso queste riflessioni e ricordi. Così come ha riportato alla luce le discussioni sulla Barbie che facevamo da adolescenti. Voi no? La Barbie come simulacro della donna oggetto, la Barbie come simbolo del capitalismo, la Barbie come archetipo, la Barbie e la sua magrezza, la sua bionditudine, la sua assenza di capezzoli e di organi riproduttivi, quasi come se il suo basso ventre fosse una sorta di “Nonluogo” citando Augé, ovvero uno spazio anonimo, neutro e incapace di accogliere la vita, un luogo non abitabile. Ricordo che ciclicamente ci ritrovavamo nel mezzo di questa discussione che spesso poi si associava alla riflessione su i Puffi, Puffetta e tutto ciò che ne deriva e su Margot e Lupin e Lady Oscar e così via.

Già prima del film quindi, la cui trama si basa su una Barbie che oltrepassa il confine (membrana, così viene definito nel film il confine, termine interessante che richiama al corpo lacunoso di Barbie) che separa il mondo dei giocattoli dal mondo reale, la Barbie era un giocattolo che portava con se dei significati e delle implicazioni che oltrepassavano il mondo del gioco per sconfinare nella realtà.

Come mai? Beh, anche questa era una questione già dibattuta. A fine Ottocento la filosofa americana Charlotte Perkins Gilman aveva elaborato una riflessione che associava l’oppressione delle donne agli elementi del contesto in cui crescevano, in particolare ai giocattoli, che fin da piccole insegnavano alle donne come immaginarsi e i limiti entro i quali delineare la propria identità. Secondo Gilman c’era una logica di dominio e di sottomissione dietro quei ferri da stiro mignon, a quei bambolotti di porcellana e a quei biberon fittizi. I giochi impartivano alle bambine una vera e propria lezione su cosa dovevano aspettarsi dal futuro. Il futuro delle donne era già presente nei loro giochi da bambina. Una simile riflessione era stata anticipata a sua volta da Platone nella Repubblica, dove i giochi venivano visti come elementi di corruzione degli animi, ma la sua riflessione non aveva implicazioni di carattere femminista.

Restando a Platone, avete presente la scena della Barbie stramba che propone alla Barbie stereotipo la NON scelta tra la scarpa col tacco (continuare a vivere in una realtà illusoria come se nulla fosse) e la ciabatta (prendere coscienza della complessità del mondo)? Ebbene in quella scena la Barbie stramba rivela alla Barbie stereotipo che NON c’è possibilità di scelta. Come mai? La conoscenza è una via senza ritorno. La perdita dell’innocenza non può essere colmata, non si ritorna innocenti. La conoscenza rompe l’illusione di felicità e apre ad una strada fatta di consapevolezza della propria fragilità e di coscienza del dolore. Sapere significa andare in contro alla sofferenza, è il prezzo da pagare per essere liberi. È la storia di Socrate e del Mito della Caverna. Non trovate? Socrate si libera dalle catene dell’ignoranza, ma il prezzo che deve pagare per la libertà e la conoscenza è il dolore che porta al sapere. Barbie perde l’innocenza (oltrepassa la membrana, Freud che direbbe?) e da lì in poi per lei, e per la sua storia, non c’è via di ritorno, bisogna procedere fino alla catastrofe finale (ovvero il finale del film in cui Barbie presentandosi dalla ginecologa si accinge a uccidere il giocattolo per fa nascere la donna).

Mi è poi venuto in mente che Giordano Bruno, filosofo rinascimentale sosteneva che la grandezza degli esseri umani era determinata dalla “mano”. La mano è infatti l’organo che permette di modificare, impossessarsi, brandire, creare, … La mano rappresenta per Bruno il carattere distintivo di ciò che è U-mano, e il segreto della sua superiorità degli U-mani sugli altri esseri. Diversamente, ma in modo analogo, nel mondo di Barbie il carattere distintivo è il piede.

Il piede perennemente sollevato da terra permette di elevare la Barbie a stereotipo, archetipo, paradigma. Il piede a punta la solleva dal dolore e dai mali dei mortali. Non è un caso che la vita di Barbie si umanizza nel momento in cui il suo piede tocca terra e Barbie, da essere divino prefetto, diviene appunto terreno, a contatto con la morte, le passioni, il divenire. Questo mi fa pensare che anche in Achille l’umanità e la divinità trovavano il loro centro drammatico nel piede. E per restare dentro la metafora: in Matrix la verità si assumeva per via orale, con una pillola blu e una rossa, qui invece si assume per via podale con una scarpa coi tacchi o una comune ciabatta. “Sublime” direbbe Ken.

Mi è capitato di pensare durante il film che è proprio il pensiero della morte o per dirla con Gadamer, l’orizzonte della morte, o con Heidegger l’essere-per-la-morte ciò che getta Barbie nel tempo, nel reale, nel mondo. La vita di Barbie cambia nel momento in cui Barbie si interroga sulla fine e smette di vivere in un tempo utopistico senza fine (infinito) chiedendosi quale sia il suo fine (ovvero lo scopo) nella sua vita. È l’orizzonte della morte che da un senso alla vita, ovvero che obbliga l’essere umano a interrogarsi sul senso, trasformando di fatto Barbie in una filosofa ovvero in un essere U-mano, che deve impossessarsi del mondo per dargli un significato, e non più un essere U-piede, staccato dalla realtà privo di dubbi e di domande.

Detto questo, il film mi ha divertito molto. L’ho trovato fresco, ilare e ben piantato nel presente del suo pubblico. Ho invidiato i vestiti, le scenografie, le coreografie, …li ho invidiati perché mi sono chiesto: “Pensa quanto si sono divertiti sul set!”. Si percepisce che tante idee e soluzioni comiche sono state create sul momento e si percepisce anche che probabilmente il protagonista di buona parte del film è Ken. Sì, Ken.

Questo perché, contrariamente a Barbie, Ken è capace di muovere pietà nella sua clownesca ricerca di un senso della propria esistenza. Ma Ken rimane sempre marginale. Può solo rendersi conto della sua finitezza, come il fuscello di Pascal, e basta. Per lui sapere è sofferenza, e al contrario di Barbie, sapere è consapevolezza della propria impotenza. Infatti Ken è alla disperata ricerca di consenso da parte di chi rappresenta la sua fonte di senso (Barbie). Ken è stato creato per Barbie, Barbie da senso alla vita di Ken, ma Barbie vede Ken come un accessorio sacrificabile.

Ken quando perde, perde tutto, invece Barbie ha sempre un briciolo di dignità e la capacità per rialzarsi. Barbie ha sé stessa e questo basta. Ma Ken… dai, non ce la può fare. Ken is not kenough.

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