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Cosa unisce filosofia e sceneggiatura? | 7 riflessioni creative a partire dalla filosofia antica

In questo articolo propongo alcune riflessioni a partire da concetti di filosofia antica per fornire degli spunti creativi utili per chi sta scrivendo una sceneggiatura o una drammaturgia o in generale sta elaborando una storia.

Lo avete notato? Ci sono delle sceneggiature che sembrano delle vere e proprie tesi filosofiche. Questo è particolarmente evidente in “Matrix”, “Essere John Malkovich”, “Everything, Everywhere all at Once”, “The Truman Show”… l’elenco potrebbe essere lunghissimo!

In fin dei conti ogni sceneggiatura o drammaturgia crea un mondo con le proprie regole e quindi propone una propria visione filosofica.

Mi chiedo: potrebbe essere vero anche il contrario?

Ovvero: esistono filosofie che che in qualche modo parlano al mondo della scrittura?

O meglio ancora: esistono delle riflessioni filosofiche capaci di stimolare il processo creativo quando si tratta di scrivere una storia?

La risposta è: ovviamente sì!

Basta saper leggere tra le righe e avere un po’ di fantasia nel creare il collegamento tra filosofia e scrittura drammatica (ovvero per la scena o per lo schermo, da adesso in poi userò il termine generico “sceneggiatura” per riferirmi ad entrambe).

Forse sono un po’ strano io, ma spesso mi capita, quando ripasso il pensiero di qualche filosofo, di trovare delle connessioni con la sceneggiatura. In quei momenti di solito prendo degli appunti, soprattutto quando sento che certe riflessioni possono risultarmi utili nel mio lavoro di costruzione di trame, nell’ideazione di personaggi o per alimentare il mio senso critico.

Non so quante persone possano riconoscersi in queste mie riflessioni o quanti possano sentirsi interessati da questi miei cortocircuiti creativi… mentre scrivo questo articolo mi sento un po’ come un alieno (nerd)! Fatemi sapere se l’argomento ve gusta.

BTW nell’arco degli anni ho preso parecchi appunti di questo tipo, ma non mi sono ma soffermato a sistemarli. Fortuna vuole che qualche tempo fa mi hanno proposto di tenere una conferenza presso la scuola nella quale insegno. L’incontro si è intitolato: “Che storie questa filosofia – ispirazioni filosofiche per chi vorrebbe scrivere una storia”, quindi ho colto la palla al balzo per mettere un po’ di ordine a queste intuizioni sparse. (trovate la mappa mentale dell’intervento che ho realizzato il 27 febbraio 2024 presso l’Istituto Superiore Manzini di San Daniele in fondo all’articolo)

E qui viene il bello.

Mentre preparavo i materiali per la conferenza mi sono reso conto della mole di connessioni che ho raccolto negli anni. C’era davvero tanto di cui parlare. Avrei potuto quasi realizzare un corso monografico semestrale! Per questo motivo ho deciso che in questo articolo (e nella conferenza che ho realizzato) avrei parlato unicamente di filosofia antica e di come questa si può collegare al mondo della sceneggiatura.

Prometto che in futuro metterò ordine negli appunti di filosofia moderna e contemporanea (…se mi inviteranno a tenere altre conferenze!).

Spero che questi appunti e riflessioni possano essere utili per tutti quegli autori ed autrici che hanno bisogno di un po’ di conforto nel loro lavoro di costruzione di una storia. Io spesso trovo questi spunti utili proprio perché confortanti e rassicuranti in quanto mi forniscono una direzione e mettono ordine (o un bel caos fertile) nella mia mente.

Inoltre spero che i filosofi e le filosofe che leggeranno questo articolo non si scandalizzeranno per alcune interpretazioni e voli pindarici. Ricordate: sono uno spirito libero!

1. il foglio bianco non esiste

Avete presente quando siete davanti al foglio bianco e nessuna idea sorge nella vostra mente? Ebbene per la filosofia antica quel foglio bianco, simbolo del vuoto cosmico, è pura illusione, non esiste.

Avete presente quando raccogliete tutte le vostre idee su una determinata storia e vi vengono in mente così tante connessioni da venire sommersi dalla vostra stessa creatività? Ebbene per la filosofia antica quel caos esiste, ed è vostro alleato.

Abbiamo qui due situazioni opposte, ma simili. Entrambe portano a confusione, smarrimento, incapacità di dare una direzione al proprio processo creativo.

In una c’è il vuoto, il nulla, il foglio bianco. Nell’altra c’è il caos, il troppo, l’eccedenza, l’infinito-indefinito.

Iniziamo dalla bella notizia: per gli antichi greci (tranne per Democrito) il vuoto non esiste quindi, secondo gli antichi greci un problema è risolto in quanto il foglio bianco emblema del vuoto creativo, non esiste (tranne che per Democrito).

Il foglio bianco non esiste dato che c’è sempre qualcosa che si proietta sul foglio. La nostra insicurezza ad esempio.

A dimostrazione di questo ci sono un’infinità di sceneggiature che si ispirano al blocco dello scrittore: “Ruby Sparks”, “Adaptation”, “Harry a pezzi”, “Tic, Tic… Boom!” , “Copia originale”, … anche in questo caso l’elenco potrebbe essere infinito.

Il foglio bianco non esiste ma esiste la paura di scrivere quello che sentiamo, o di riportare sulla pagina dei pensieri che giudichiamo superflui, banali.

Il foglio bianco non esiste semplicemente abbiamo paura di riempire quel foglio di considerazioni ridondanti che ci farebbero sembrare folli come Jack davanti alla macchina da scrivere in “Shining” di Kubrick.

Il nulla non è, c’è solo la reticenza di chi potrebbe scrivere e invece si autoconvince che nulla abbia senso o che nulla sia presente nella propria mente.

Eppure già il fatto di pensare di non avere un’idea implica che qualcosa si sta pensando e quindi che qualcosa c’è.

Se è vero che il foglio bianco non esiste, IN COMPENSO esiste il caos creativo ovvero quella situazione primordiale e senza forma nella quale siamo totalmente disorientati dall’ipertrofia di spunti e visioni.

Questo caos suggerisce una connessione diretta con l’àpeiron di Anassimandro, filosofo della scuola di Mileto del VII secolo a.C.

Per Anassimandro tutto si genera da ciò che è senza forma definita, un brodo primordiale cosmico nel quale tutto è fuso, confuso e privo di forma. L’àpeiron,  a me ricorda molto il brainstorming iniziale, il caos che si percepisce quando si inizia un processo creativo.

Anassimandro ci suggerisce (implicitamente) di non aver paura del caos, perché con un po’ di pazienza e con la giusta energia tutto inizia a prendere forma. Come? Separando e unendo. Identificando i vari elementi presenti nel magma primordiale e unendoli tra di loro per formare delle parti complesse.

Un gioco che spesso faccio è quello di riportare su dei post-it la miriade di spunti che ho su una determinata idea. A quel punto osservo i post-it e individuo gli elementi ricorrenti presenti nel mio brain-storming. Inizio quindi ad aggregare i post-it in unità di senso. Questo gioco mi aiuta ad uscire dal caos per andare verso l’odine, mi fa passare dal brainstorming alla scrittura vera e propria.

2. superare il conflitto in compagnia di Eraclito

Da tempo lo sostengo: il concetto di conflitto è superato e servono altre immagini / concetti per guidare la scrittura drammatica. Il conflitto inteso come scontro / opposizione di forze antagoniste è senza ombra di dubbio molto utile per la progettazione di scene e intere drammaturgie MA non è l’unica via, ANZI pensare che il conflitto sia l’unica via per l’ideazione di una storia porta a creare storie simili, ripetitive e per questo prevedibili.

Per superare il concetto di conflitto io spesso mi affido ad Eraclito e alla sua filosofia. Eraclito di Efeso visse nel VI secolo a.C. e nella sua filosofia sosteneva che tutto scorre (panta rei), tutto cambia e che all’interno di ogni elemento ci sia un fuoco ovvero una contesa che spinge gli opposti a trasformarsi l’uno nell’altro in un continuo intreccio di elementi contrari.

Ecco, a me il pensiero di Eraclito, aiuta particolarmente quando sento che alcune scene sono statiche oppure quando mi trovo in fase di progettazione di una storia e sento che l’azione non progredisce. Allora mi chiedo: la storia sta scorrendo come il fiume nel quale si bagnava Eraclito? I personaggi si stanno trasformando? C’è fuoco in ogni elemento? C’è fusione, mutamento, creazione e distruzione?

Queste domande mi aiutano molto a trovare la via, molto di più della domanda “c’è conflitto?”.

3. abbandona la logica e fallo in fretta

Credo profondamente che la filosofia sia il contrario, l’opposto, il doppio della scrittura drammatica (e dell’arte di narrare in generale).

Credo questo perché mentre la filosofia ha tra i suoi compiti quello di svelare la realtà che si cela al di là delle apparenze, la scrittura drammatica ha la missione di mascherare la realtà creando delle apparenze che paradossalmente sono più reali della realtà.

Il lavoro del filosofo è svelare, il lavoro di chi narra è nascondere.

Filosofia e narrazione agiscono in modo speculare, ma coincidono nella ricerca della verità. Sia la filosofia che la scrittura cercano a loro modo la verità, solo che una la ricerca smascherando l’inganno delle apparenze e l’altra indossando una maschera. Chi scrive storie sa, che la maschera serve per dire una verità che altrimenti non verrebbe accettata o capita o vista.

L’opposizione o complementarietà di queste due discipline per me è particolarmente evidente nella logica di Aristotele, filosofo del IV secolo a.C. famoso per non essermi particolarmente simpatico.

Gusti personali a parte, la logica aristotelica si basa su 3 principi:

a. sul principio di identità: A = A tradotto io sono io

b. sul principio di non contraddizione A è B o A non è B tradotto io sono Alessandro o io non sono Alessandro

c. sul principio di terzo escluso ovvero A è B o A non è B non c’è una terza opzione, io sono generoso o io non sono generoso e non posso essere generoso e non generoso allo stesso tempo.

Ora per me, un’opera teatrale o un film per funzionare, per essere valida, deve andare contro a tutti questi principi:

a. deve andare contro il principio di identità perché ogni elemento della storia (personaggi, dialoghi, ambientazioni, …) dovrebbe rimandare ad un significato che va oltre la propria identità. Ogni elemento è metafora di qualcos’altro, ogni dialogo rimanda ad un sottotesto. Quindi al principio di identità A = A va sostituito un principio che potremmo chiamare di molteplicità A = B C D. In Matrix ad esempio la storia di Neo va oltre la storia di Neo, il suo viaggio è un percorso filosofico, ma è anche una riflessione tra ciò che è reale ciò che è virtuale, ma è anche una metafora sull’identità di genere e su un percorso di transizione da un genere all’altro. Ogni elemento della storia è importante per le sue rifrazioni più che per la sua identità

b. deve andare contro il principio di non contraddizione infatti i personaggi di una storia dovrebbero portare degli elementi di contraddizione mettendo in luce la loro complessità, ambiguità e contraddittorietà. Un personaggio deve essere buono e cattivo allo stesso tempo. Compiere delle azioni giuste che causano delle ingiustizie. Ovvero essere la somma delle sue contraddizioni. Volete un esempio concreto? Pensate a quel personaggio formalmente conosciuto come Bruce Wayne. Il personaggio di Bruce Wayne non solo è Bruce Wayne ma è anche Batman. Bruce Wayne è Batman ovvero è allo stesso tempo un personaggio pacifico e riservato, ma anche un cavaliere mascherato e violento. Quale è quindi la vera identità del personaggio? Bruce Wayne o Batman? Entrambi. E ancora: le azioni che compie Batman sono giuste o ingiuste? Entrambe. Sconfigge il crimine, ma lo fa comportandosi in modo criminale. La sua contraddizione è la sua forza drammatica.

c. deve andare contro il principio di terzo escluso soprattutto per quanto riguarda la strategia nella scrittura del finale. Pensate in questo caso a degli intrecci che si basano su uno scontro tra forze opposte: vincere o perdere, salvarsi o morire, terminare una relazione o continuare a stare insieme, … queste storie secondo il principio del terzo escluso dovrebbero terminare in un modo o nell’altro, non ci potrebbe essere una terza opzione. Ma è proprio la terza opzione che rende il finale avvincente. Lo si evince osservando alcune opere che si basano su questo contro tra opposti:

a. vincere o perdere oppure vincere perdendo come nel primo episodio della saga “Cars” della Pixar

b. salvarsi o morire, o salvare la persona amata sacrificandosi come in “Titanic” di Cameron

c. terminare una relazione o continuare a stare insieme, o creare un mondo parallelo e immaginario nel quale non lasciarsi mai come in “La La Land” di Chazelle

Il principio del terzo escluso va contro il “twist” drammatico che caratterizza tanti finali memorabili.

Pensateci non c’è niente di più avvilente di un personaggio sempre simile a sé stesso e mai contraddittorio e di una storia che si conclude esattamente come potevamo prevedere senza mettere in gioco una soluzione che non ci saremmo mai (logicamente) aspettati.

04. il principio che regola ogni cosa

Talete, il primo dei filosofi, sosteneva che tutto è acqua. Meglio: sosteneva che l’acqua è il principio primo (arché) che regola la vita. Dove c’è acqua c’è vita e dove non c’è acqua c’è morte.

E se lo stesso principio funzionasse con le storie?

Se ci fosse all’interno di ogni storia un principio che regola tutto e che determina ciò che fa parte della storia e ciò che non fa parte della storia?

Se al posto dell’acqua ci fosse, che ne so, il sogno (“Inception” di Nolan) l’attesa (“Aspettando Godot” di Beckett) il viaggio (“l’Odissea” di Omero) la discesa e ascesa nel peccato (“l’Inferno” di Dante) la follia (il “Quijote” di Cervantes) la fame (“I cannibali” di Tabori) la luce e l’oscurità (“Roberto Zucco” di Koltés) la vendetta (“La visita della vecchia signora” di Dürrenmatt)… continuo?

L’arché, il principio primo di Talete, mi ricorda “l’idea di controllo” o “tema” o “archetipo”, un’espressione semplice capace di contenere un’intera opera in una sola parola (o poche parole) e di guidarne i contenuti, rendendoli coerenti.

Posso dire una cosa? Io non scrivo mai nulla senza un arché in tasca, e neanche voi dovreste.

05. questa volta do ragione ad Aristotele

Nella “Retorica”, libro che analizza le discipline capaci di suscitare emozioni, Aristotele parla dell’opera drammatica (opera teatrale che deve suscitare paura e pietà nel pubblico). In questo libro Aristotele sostiene che l’opera teatrale per essere ben scritta deve suddividersi in tre parti: inizio, sviluppo e fine. Di queste tre parti la prima e l’ultima (inizio e fine) sono più brevi della seconda (sviluppo) all’interno della quale si svolge l’azione drammatica.

Ora, senza troppi giri di parole: Aristotele ha ragione.

Non c’è molto altro da dire.

Funziona così, e basta.

Lo conferma anche il celebre guru della sceneggiatura McKee quando sostiene che una buona sceneggiatura deve iniziare il più tardi possibile e finire il prima possibile. Non sta nient’altro che ribadendo il concetto di Aristotele: inizio e fine brevi, mentre sviluppo q.b.

06. e invece no! Non gli do ragione, non tutta per lo meno

In filosofia, ma in generale nella vita, quando qualcuno vi dice “è così e basta” significa che:

– qualcosa non va

– non è vero

– si vuole chiudere la conversazione in fretta

Infatti quello che sostiene Aristotele con la suddivisione in tre atti NON è SEMPRE vero. A volte le cose vanno diversamente. Per capirlo ci viene in aiuto Pitagora con il suo righello e la sua squadra.

Pitagora sosteneva che il principio di tutto (l’arché) fosse il numero. Ogni elemento a questo mondo può essere rappresentato da un numero. MA attenzione il numero per Pitagora non ha solo una valenza quantitativa, matematica, MA anche spaziale, geometrica. 1 è il punto. 2 la retta. 3 il triangolo. 4 il quadrato, e così via. Ogni numero ha il suo valore e la sua struttura. Mi seguite? Capite dove voglio arrivare?

La regola dei 3 atti di Aristotele è sempre vera perché fondamentalmente non dice nulla di concreto. Aristotele propone una teoria troppo vaga, sfuggente, sgusciante (non falsificabile direbbe Popper, filosofo contemporaneo che in questo articolo non posso citare purtroppo).

Diventa interessante a questo punto la posizione di Pitagora: ogni creazione ha la sua forma, unica.

Pensate ad esempio alle seguenti opere:

– “Girotondo” di Schnitzler, un testo dalla forma ciclica e ricorrente, potenzialmente infinito

– “Tragedie in due battute” di Campanile, un testo composte da scene in 2 tempi, inizio e finale

– “Aspettando Godot” di Beckett, un testo in due atti nei quali non accade nulla, praticamente due inizi o due finali estesi

– “Memento” di Nolan, una sceneggiatura scritta partendo dall’ultima scena fino alla prima a suon di flashback, ovvero dove la fine è l’inizio

Potreste obiettare che in tutte queste opere si può comunque applicare la regola di inizio-sviluppo-fine di Aristotele, e mi sa che alla fine dovrei darvi ragione, MA il mio consiglio è quello di considerare la vostra storia dalla prospettiva pitagorica e non da quella aristotelica ovvero come un numero unico e irripetibile con la sua forma e con la sua struttura che rappresentano SEMPRE una fonte di novità e di diversità. In generale cercate di evitare di applicare delle regole universali, ma prive di spina dorsale. Scusami Aristotele, ce l’ho proprio con te!

07. il vuoto esiste ed è utilissimo

Democrito, filosofo atomista del quale sono superfan, sosteneva che il vuoto esiste e fa parte del mondo così come lo percepiamo. Il vuoto è infatti ciò che permette il movimento. Secondo Democrito la materia può muoversi solo dove non c’è materia, ovvero dove non c’è nulla, dove si trova il vuoto.

Molto interessante, ma cosa centra questo con la sceneggiatura / drammaturgia?

I copioni teatrale o le sceneggiature risultano interessanti, coinvolgenti e ben lavorati quanto c’è un po’ di “vuoto” all’interno delle loro pagine. Immagino che siate un po’ confusi da questo pensiero un po’ criptico, vi faccio degli esempi:

– un vuoto che lascia spazio al mistero ed evita di spiegare tutto. L’opera dovrebbe essere porosa / aperta permettendo così al pubblico di immaginare alcune interpretazioni, situazioni o evoluzioni (immagino in questo caso i finali aperti, o linee drammatiche parallele)

– un vuoto che permette allo spettatore di colmare dei significati attraverso l’interpretazione e la fantasia, completando ellissi e omissioni e divenendo così spettatore attivo e non passivo. Per ottenere questo vuoto diventano fondamentali gli strumenti quali le azioni, le immagini e le ambientazioni tutti elementi capaci di creare allusioni e rimandi di significati e non di spiegare tutto come a volte fanno invece i dialoghi

– un vuoto che si può notare tra le pagine della drammaturgia e della sceneggiatura lasciando spazio a quella che viene definita “white page” ovvero la presenza nella pagina di elementi legati all’azione, alle didascalie, ai cambi di scena e ai dialoghi. Un sceneggiatura e una drammaturgia dovrebbero lasciare spazio ai cambi di ritmo, alle accelerazioni e ai rallentamenti, risultando anche al lettore ariosa, leggera, e non come un blocco di testo simile ad un romanzo o ad un saggio

Se vuoi riempire un vuoto, colmandolo sotto ogni aspetto, scrivi un saggio o un romanzo. Se vuoi abitare un vuoto, lasciando spazio al pubblico e alle possibili interpretazioni, scrivi una sceneggiatura (o una drammaturgia).

Dalla prospettiva di Democrito si può quindi sostenere che il foglio bianco esiste ed è uno strumento molto potente.

In conclusione filosofia antica e scrittura drammatica presentano alcuni punti di contatto, ma restano due discipline molto distinte l’una dall’altra. Questo non toglie che la possibilità di trovare un terreno comune facendo dialogare questi due ambiti sia una missione della filosofia così come la concepivano gli antichi, ovvero come scienza regina capace di unificare il sapere individuando ciò che è in comune tra mondi anche lontanissimi (questa definizione di filosofia la fornisce Aristotele e mi sembra molto carina).

Spero che questo articolo vi abbia portato un’esplosione di creatività e di riflessioni fertili.

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